Luglio 2021 – Felled

 

Un mese di stop per assenza di validi contendenti è un prezzo da pagare tutto sommato alquanto minimo nonché assolutamente giustificabile per un anno dall’andamento del 2021, specialmente qualora il successivo piombi invece dritto al punto per premiare l’assetato come luglio ha infine fatto. Tra la muschiosa, atmosferica e a tratti straziante dolcezza folkloristica dei Felled, autori del disco di luglio per tre quinti della redazione con il loro “The Intimate Earth” (uscito per una a dir poco insolita Transcending Obscurity su simili coordinate), la marcia incrostazione di sangue avvelenato Hinsides, o la svergognata grandiosità squisitamente esagerata dei Wizardthrone e la grintosa, inconfondibile oscurità tedesca dei Friisk, in un totale di quattro album di debutto su quattro in programma per oggi si torna finalmente ad averne davvero per ogni possibile gusto.
Iniziamo dunque con coloro che in un glorioso ed altro tempo risalente al biennio 2012-2013 si chiamarono Moss Of Moonlight, e di cui dovreste ormai conoscere gli ambiziosi ed immancabili “Seed” e “Winterwheel”, gemme dalla una forma assolutamente sui generis per la Cascadia di cui si fanno voce e grido in forma aurale fin dalla concezione, e che ora rinnovati rispondono al più contenuto, catastrofico e diretto ma non meno poetico nome di Felled: è con il loro debutto ufficiale su full-length che si torna a versare e fiutare sangue sul manto di neve che ricopre una terra silente ed austera, eppure intima e materna.

 

 

Trasmutati nell’originalità che fu già totalmente loro nei grandiosi Moss Of Moonlight di “Seed”, i Felled di “The Intimate Earth”, rinati e rinnovati ma sempre guidati dal solido nucleo familiare e compositivo di Cavan Wagner e Jenn Grunigen, riescono a conti fatti dove troppo spesso la natura velatamente hit-or-miss degli osannati Panopticon (“The Rite Of Passage”) fallisce: il Neo-Folk arcaico dal gusto americano si mescola ad un gustoso impianto Black Metal d’atmosfera impastata e ruvida, insaporita da un approccio quasi tendente al Doom di scuola My Dying Bride (non solo l’inizio della variegata “Fire Season On The Outer Rim” ne tradisce perfettamente esemplificata l’ispirazione melodica), che si carica di luci preziose e vette raggiunte da personalissimi ritmi zoppicanti e trame dalla convulsità circolare che ricordano in particolare l’operato e le rivelazioni irripetute degli Skagos di “Anarchic” (“Sphagnum In The Hinterlands”) rifuggendo qualunque momento di prolissità fin troppo tipica dei colleghi d’area e stile. Una riflessione di freschezza su ciò che essere in comunione ed armonia col circostante naturale comporta, tra vita e morte.”

I raggi aurei che precedono il crepuscolo inondano i paesaggi traslucidi di “The Intimate Earth”; progressioni intense, sospese in un fragile e precario equilibrio si scaldano del delicato tocco di viola e violino, disvelando un’anima splendidamente folkloristica in cui l’elemento acustico o classico non è un semplice ornamento né una rifinitura, ma il cuore pulsante posto a dipingere con eleganza l’intenso quadro prettamente naturalistico. Quella personalità genuina che già rendeva uniche le note dei Moss Of Moonlight ne esce trasfigurata, rinvigorita e tesa come la corda di un arco, non smorzata da un’estremizzazione del sound bensì carica di un dramma e di una classe cugini di “Marrow Of The Spirit” ma vibrante di uno spirito cascadiano distante da etichette e paletti territoriali, al contrario, quanto mai personali. Il debutto dei Felled non è un punto di inizio, ma la nuova pelle di artisti che, già maturi, ci regalano la loro particolare interpretazione di Atmospheric Black Metal in un disco assolutamente vitale, luminoso e struggente.”

Ritornano sulle scene le disperse sonorità della Cascadia attraverso il primo disco ufficiale dei Felled dopo l’affine ma non perpetratavi esperienza Moss Of Moonlight. Finalmente tra le nuove uscite ritroviamo quegli aspri vocalismi che sembrano provenire dal fondo di una caverna e quei passaggi chitarristici che solo chi ha determinati scenari come musa ispiratrice, visiva e nell’anima, è in grado di creare. Come forse da previsione, abbiamo di fronte una vera e propria ode alla natura sotto ogni suo punto di vista, dove il violino fa da filo conduttore tra il cuore della Terra e quello nero dell’Uomo sostenendo da solo la quasi totalità delle parti melodiche, definendo sia lo stato d’animo che l’impatto emotivo delle composizioni. Proprio quando questo elemento scompare sbucano i pochi difetti di “The Intimate Earth”: troviamo infatti una produzione piuttosto scarna dove lo sporco (volontario, considerato il curriculum di Jack Shirley che ha mixato il disco dopo i vari Deafheaven, Oathbreaker, Bosse-De-Nage, Ultha e Wigedood, da “Sunbather” a “Converging Sins” passando per “Thrice Woven” dei Wolves In The Throne Room e gli Amenra) suona molto artificioso rendendo a tratti inutile l’esistenza degli accompagnamenti di chitarra, complice anche un basso fin troppo in alto nel mix. Nonostante qualche dettaglio i Felled trasmettono però con successo la propria filosofia in musica e chi scrive è certo che in futuro, con una migliore e più adatta cura del sound, sapranno regalarci forti emozioni.”

Bal-Sagoth-y much? Sia la risposta affermativa un bene o un male per chi legge, i Wizardthrone di “Hypercube Necrodimensions” consegnano un debutto di musica che non si sentiva da tempo: pomposa, incastrata tra la fine degli anni ’90 ed il 2003, eppure oscura e malevola quanto basta per brani memorabili ed un finale da brividi. Vogliate essere più gentili della loro label Napalm Records: non accostateli ai Gloryhammer. I motivi di seguito.

Un vortice elettrostatico e travolgente di sintetizzatori della più varia natura e chitarre inerpicate in adrenaliniche rincorse illumina di sfolgoranti bagliori verdastri i tetri anfratti in cui vengono pronunciate le prime malìe dei Wizardthrone: un’efferatezza sinfonica e grandiosa, che tuttavia non cede il passo all’eccessiva pomposità né alla ricerca di facili soluzioni, ma si dispiega in progressioni dal gusto neoclassico e dal filo tagliente, in grado di esprimersi sia nei brani più corti e supersonici come la title-track che nella conclusiva e monumentale “Beyond The Wizardthrone”. “Hypercube Necrodimensions” è un’uscita che, a dispetto di un grandeur assordante e magniloquente che a tratti affoga e appiattisce i passaggi meno esaltanti e comunque riusciti, va a stagliarsi come ottimo e riuscito esempio di un Metal estremo ormai raro da rintracciare nelle nuove formazioni, a cavallo fra il Melodic Death e il Black Metal più sinfonico, tra gli Stormlord di “Mare Nostrum” e i Bal-Sagoth di “Starfire Burning Upon The Ice-Veiled Throne Of Ultima Thule”; sfogo di artisti capaci che, Christopher Bowes in testa, hanno deciso di mettere da parte i toni maggiormente farseschi cui sono ormai soliti e, pur senza tradire la loro natura ma, anzi, forti di massima libertà, hanno confezionato un primo album dalla forte carica epica e cinematica.”

Negli uffici del colosso editoriale austriaco devono aver capito che le parodie pregne di spocchia mascherata da ironia faranno anche fare più click del dovuto su YouTube, ma non funzionano tanto quanto la pura e semplice esagerazione di uno stereotipo: è proprio questa la logica dietro un prodotto come “Hypercube Necrodimensions”, il cui concept sopra le righe viene restituito da quegli arroganti barocchismi strumentali andati perduti ad inizio millennio, con la materia finlandese allora in pieno exploit filtrata attraverso la coeva pomposità che caratterizzava le ultime cose godibili incise dai Dimmu Borgir a cavallo di “Spiritual Black Dimensions” e “Death Cult Armageddon”. La scrittura non cerca mai la quadra dando invece pieno risalto alle sviolinate di chitarra e tasti nero-bianchi, ficcanti alla stessa maniera dei ritornelli sapientemente dosati e mai invasivi; che siano l’ennesimo supergruppo one-off oppure un progetto destinato a durare, i Wizardthrone sono un’altra sorpresa di questo peculiare 2021.”

L’attitudine viziosamente lo-fi dei debuttanti Hinsides (con tanto di pedigree Ultra Silvam al seguito) in “Under Betlehems Brinnande Stjärna”, uscito ad inizio luglio per l’ormai solita sospetta Regain Records con la sua milizia armata Shadow Records quando si parla di simili sciccherie, che ha conquistato totalmente Ordog. Tra una cover dei Samhain (!) e massacro totale, oltre alla qualità di un primo album sfolgorante una sola cosa è certa: only xerox and chainsaw guitars are real!

“Per quanto sia forse considerabile un more-of-the-same del comunque troppo poco acclamato “The Spearwound Salvation”, l’esordio dell’appendice Hinsides ne risulta quasi la versione demo uscita però due anni dopo. La chitarra si fa ancora più stridente, stordente, e le tempistiche non esitano a farsi meno estenuanti (sia per brevi stacchi dal solito assalto all’arma bianca, sia per interi episodi che trascinano attraverso la sezione centrale come in “Skymningsfärd”), elevando a potenza il coefficiente di marciume e salvaguardando in ogni caso il malefico tocco melodico della band madre, perfetto nel nobilitare e conferire un briciolo di modernità a quel necro-sound che in Svezia sta vivendo una seconda giovinezza proprio grazie ai Lifvsleda di “Det Besegrade Lifvet”, agli stessi Ultra Silvam e all’impegno della scuderia Shadow Records.”

Qualcuno li ha accostati ai Nagelfar e su queste pagine non ci spingeremmo sicuramente mai fino a tanto, eppure è innegabile un certo savoir faire ai Friisk di “…Un Torügg Bleev Blot Sand” (fuori per Vendetta Records), debutto dei giovani tedeschi che dopo l’esperienza Frisienblut conclusasi nel 2018 li porta su ben altre coordinate d’ingegno, qualità e stile. Ce ne parla più approfonditamente il nostro Kirves come ultima nomina dell’articolo di oggi.

Il pathos e l’intensità di “…Un Torügg Bleev Blot Sand” spalancano come una folata di vento le porte della discografia dei tedeschi Friisk, che alla prima prova in studio si dimostrano fin da subito consci delle loro potenzialità e degli elementi da instillare ai propri assalti per ottenere una formula trascinante e dalle dolorose venature malinconiche: il denso e compatto wall of sound, fragoroso e dalle squadrature tipicamente tedesche, si disgrega tra le raffiche ariose e dilatate con riverberi dal retaggio atmosferico esaltati da una produzione moderna e bilanciata. La qualità compositiva di brani come “Mauern Aus Nebel” e “Dem Wind Entgegen” è il lanternino di una giovane formazione dalle capacità indubbie e dal promettente futuro, e tuttavia per quanto estremamente godibili e freschi i quasi cinquanta minuti di full-length rischiano di non superare la prova degli ascolti, mancando per il momento di quella scintilla di personalità in grado di far spiccare i Friisk in quel bacino di band locali a cavallo fra sonorità passate e presenti ma dal sound inconfondibile come Der Weg Einer Freiheit, Beltez ed Ultha.”

Concludiamo quindi con l’ormai immancabile aggiunta di qualche sparuto ma meritevole nome per coloro i quali non ne avessero abbastanza coi quattro di cui sopra o, molto più banalmente, previo ascolto, cercassero dell’altro: gli affamati incalliti di Finlandia di un certo calibro potranno ad esempio banchettare al chiaror di luna con i Marras, giunti al secondo full-length tramite Spread Evil Productions e l’appropriatamente intitolato “Endtime Sermon”. Il mancante Feanor lo consiglia spassionatamente in coppia con “Battlespells” dei Warmoon Lord uscito a fine giugno, anche qualora non siate esageratamente estimatori dei pur diversi Vargrav, Embryonic Slumber od Olio Tähtien Takana dell’ex-tastierista della band V-Khaoz, a cui per forza di cose e di fama (forse dovuta più ad iperattività cronica che altro) il nome dei Marras resta nemmeno troppo correttamente legato. Impossibile poi non consigliare un ascolto almeno al ritorno dei Musk Ox, “Inheritance”, squisito album di Neo-Folk acustico suonato in guisa di musica da camera dal tripudio di chitarre classiche, violino, violoncello, vento, acque e foglie, guidato dalla composizione affilata e visionaria di Nathanael Larochette (quelli con più memoria ricorderanno il calore commovente dei suoi pezzi -guai definirli intermezzi!- su “The Serpent & The Sphere” degli Agalloch nel 2014) ed un po’ troppo limite per genere da finire in competizione per l’articolo del meglio di luglio, ma uscito autoprodotto e comodamente ascoltabile qui.
E se proprio i nostri beneamati e funzionali vincoli di genere ci impediscono invero di consigliare su queste pagine un disco incredibile come il ritorno degli svedesi At The Gates dopo due colpi andati terribilmente a vuoto, poco v’è da disperarsi in fondo a giudicare da tutto quel di cui vi si potrà parlare una volta finito il pienissimo agosto in corso.

 

Matteo “Theo” Damiani

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